Il 29 ottobre 2021 si è svolta presso il Senato della Repubblica, Sala Zuccari, Palazzo Giustiniani, l’evento dal titolo “I dati, bene comune. Pandemia, PNRR e le prossime sfide del Paese“, organizzato dalla Senatrice Castellone del Movimento 5 Stelle.

Una mattinata dedicata al tema a noi caro dei #datiBeneComune, dalla quale abbiamo voluto estrarre e trascrivere l’intervento della dottoressa Stefania Salmaso dell’Associazione Italiana Epidemiologia, perché contiene dei passaggi cruciali sull’informazione e la sua gestione, sull’unidirezionalità della sorveglianza e sulla fragilità dei centri di produzione di conoscenze. Una delle sue note:

se la digitalizzazione non è inserita in un’architettura informativa che generi cultura, saremo sopraffatti dai dati e non sapremo cosa farci

👇👇👇 Qui sotto la trascrizione completa (fonte Radio Radicale). Grazie a Dennis Angemi per la revisione del testo.


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Buongiorno a tutti intanto grazie alla sensibilità della senatrice che ha organizzato questo evento su cui noi – tra diciamo tecnici, persone che si occupano di scienza – discutiamo molto, perché per noi i dati sono il pane quotidiano.
E con i dati cerchiamo di dare il nostro contributo alla comprensione di quello che succede.
Io vorrei attirare l’attenzione comunque su un altro aspetto. Dopo la presentazione che ci ha fatto il dottor Pontrelli, sulla necessità di avere i dati per elaborare anche soluzioni alternative. E la presentazione del dottor Sylos Labini, che ci ha spiegato quanto (N.d.R. i dati) siano importanti per le previsioni.
Vorrei invece puntare l’attenzione sulla rilevanza dei dati per la sanità pubblica, per ovviamente aumentare le nostre conoscenze, ma anche per facilitare le scelte consapevoli tra i cittadini, perché in effetti questo secondo me è un punto cruciale.

(N.d.R. Vediamo) un esempio. A questo punto non farò discorsi teorici, parto proprio dal  quotidiano.
Tutti noi ormai abbiamo ben chiaro il clamore che è nato dall’introduzione del green-pass nei luoghi di lavoro, ed effettivamente questo ha sollevato molte posizioni diverse. Anche persone autorevoli si sono schierate, contestando questa misura, guardandone soprattutto l’aspetto di principio, ossia un diritto fondamentale come l’accesso al lavoro, viene vincolato a un altro elemento che è quello di sottoporsi a un esame per chi non è vaccinato, cioè il tampone, per sapere lo stato di infezione.
In questo caso, abbiamo visto sui giornali  che nelle piazze ci sono state molte manifestazioni. Ma qual è il punto fondamentale? Qualcuno ha pensato a quali sono i rischi che si corrono sul luogo di lavoro, quando ci sono delle persone non vaccinate?
La popolazione generale ha una percezione del grado di rischio che si corre di fronte a queste situazioni?
Allora che cosa avremmo voluto sapere? Avremmo, per esempio, voluto sapere quanti focolai epidemici in Italia ci sono stati. Quattro milioni e settecentomila casi (N.d.R. casi di COVID in Italia), ci saranno stati parecchi focolai epidemici da documentare negli ambiti di lavoro.
L’Associazione Italiana di Epidemiologia ha provato a documentarne alcuni, anche perché di fatto lavora con colleghi che stanno sul territorio e sono sopraffatti dalla mole di attività da fare, nel servizio sanitario nazionale, però è riuscita a documentarne alcuni.
Ovviamente scuole, focolai di trasmissione documentati in qualche scuola, ma soprattutto in ambito lavorativo c’è stato un un enorme focolaio, che si è verificato in un centro ortofrutticolo in Puglia, ormai nel 2020, prima della vaccinazione, che poi ha comportato in un piccolo centro – a Polignano, tanto per non fare nomi – ha comportato una serie di casi anche nella popolazione generale.
Un altro focolaio ben documentato – è successo in Nord Italia – uno stabilimento di lavorazione delle carni, dove tra le persone che lavoravano si è trasmessa l’infezione.
E un altro anche nella zona del Lazio su un settore di logistica di corriere, dove le persone fisicamente si incontrano per scambiarsi pacchi, si urlano le indicazioni e, in qualche modo, anche lì si è risaliti a una catena di contagi, in epoca pre vaccinale, di persone esposte per il lavoro che facevano.
Sono stati identificati anche dei fattori che facilitano la trasmissione dell’infezione: se in certi ambiti di lavoro entra un infetto e ci sono certe condizioni, può essere più facile che questa persona contagi gli altri. Le condizioni sono state identificate. Come la temperatura, per esempio la bassa temperatura dello stabilimento della lavorazione delle carni, è stata un elemento fondamentale. Il fatto di lavorare in un capannone come il centro ortofrutticolo, un capannone enorme a bassa temperatura, in cui le persone per passarsi le consegne e lavorare insieme, si urlavano a voce alta le cose e quindi emettevano molte più droplets, particelle, tutto quello di cui abbiamo ormai sentito parlare, per cui un infetto poteva provocare molti danni. La rumorosità dell’ambiente di lavoro, dove le persone sono costrette a parlare a voce alta, è un elemento che facilita la trasmissione del COVID. E anche la filiera di addetti non controllati:  nel settore della logistica c’è una catena quasi di sotto appalti, dal mega distributore fino ad arrivare al singolo, che va a lavorare magari pagato a seconda delle consegne che fa, che andrà a lavorare pure se ha la febbre, se sta male, perché comunque gli serve. E in quel caso quindi c’è una situazione assolutamente pericolosa. La mancanza di distanziamento fisico e l’uso assente o improprio delle mascherine

Allora forse le persone, se avessero avuto una costante informazione di quali sono i rischi di acquisire il COVID da chi non è vaccinato in ambito lavorativo, forse avrebbero avuto una percezione diversa dell’opportunità di introdurre un filtro per chi non è vaccinato prima di andare in mezzo ai colleghi.
Quindi al di là delle questioni di principio ideologiche, sulle quali non affrontiamo il problema, c’è una parte anche pratica, in cui la disponibilità di questi dati ci avrebbe forse potuto aiutare a generare un consenso almeno su una parte, per capire che i non vaccinati sono quelli che stanno sostenendo la pandemia in questo momento in Italia, e quindi degli screening periodici di coloro che sono a maggior rischio di infezione, poteva aiutare in qualche modo tutti quanti.

Un altro punto importante su cui generare consenso sono le vaccinazioni. E anche qua sulle vaccinazioni abbiamo sentito di tutto di più e c’è molta gente che anche qua, se ideologicamente contrari alle vaccinazioni –  i cosiddetti no-vax – probabilmente abbiamo meno possibilità di influenzarli.
Ma per altri il problema è l’informazione. C’era un articolo molto interessante che ho trovato adeguato, sul sito Scienza in Rete, che è sempre molto sul pezzo, che dice tra consenso disinformato – cioè la gente si vaccina ma non ha capito comunque di che cosa si tratta – e il dissenso misinformato – cioè la gente che dissente perché ha delle informazioni sbagliate – e ovviamente come procede la vaccinazione.
E in tutto il mondo – questa non è un’osservazione italiana – sono stati identificati tre motivi fondamentali, tre pilastri del dissenso vaccinale

  • il COVID è curabile, e purtroppo c’è molta gente che pensa erroneamente che sia poco più che un raffreddore;
  • il vaccino è pericoloso, perché è stato fatto di fretta tutte queste altre storie che sono assolutamente false; 
  • soprattutto non mi fido di chi me lo offre. Cosa vuol dire “non mi fido di chi me lo offre”? In linea di massima non mi fido delle fonti ufficiali.

E allora come si contrasta questa situazione? Non possiamo cambiare la testa alla gente o le percezioni che sono consolidate da un sacco di tempo.
Probabilmente un’informazione indipendente, basata su dati indipendenti, raccolti in modo indipendente da altre persone, avrebbe aiutato a evitare la percezione di un pensiero unico. Cioè l’autorità che mi impone o mi offre qualche cosa senza altre voci intorno. E la comunità scientifica avrebbe potuto aiutare avendo delle informazioni di prima mano, da elaborare in modo indipendente, avrebbe potuto costituire una serie di altre fonti, che magari supportano l’offerta della sanità pubblica.

Invece in Italia non abbiamo avuto questa situazione e questo ha generato un un corto circuito. Perché? In Italia come abbiamo risposto alla pandemia? Con la Protezione civile. All’inizio è stata una tale emergenza che è arrivata la Protezione Civile, che normalmente vediamo per le alluvioni, per i terremoti – e ringraziamo Iddio di avercela e siamo contentissimi – però lo strumento, è uno strumento di attacco su una fase acuta; sul lungo tempo diventa un po’ difficile.
E la Protezione civile che cosa ha fatto? Ha emanato delle ordinanze – essendo a capo della risposta in qualche modo – che prevedevano come dovessero viaggiare le informazioni. Questa è l’ordinanza 640 che stabilisce il flusso informativo per sapere cosa succede nel Paese. Non si è appoggiata a dei flussi già esistenti, solidi, ossia dei flussi che ci dicono quante persone si ricoverano, quante vanno al pronto soccorso, che già funzionassero, no! Abbiamo dovuto crearne uno ex novo, perché quelli soliti, per assolvere il debito informativo, non son serviti e quindi questo è stato un problema, un raddoppio di risorse, perché non c’era la manutenzione degli altri per rispondere a qualcosa di urgente.
Cosa si dice della sorveglianza epidemiologica nell’articolo 1? Che la sorveglianza epidemiologica è affidata all’Istituto Superiore di Sanità – e che Dio ce lo conservi perché ha fatto un ottimo lavoro – però ai fini della sorveglianza l’Istituto predispone e gestisce una piattaforma e le regioni e tutte le autorità sanitarie locali in una filiera buttano dentro le informazioni. Se leggete gli articoli non c’è mai il ritorno dell’informazione. Cioè tutte le informazioni viaggiano in un’unica direzione: dalla periferia – giustamente – verso il centro, ma finiscono dentro questo grande database che oggi contiene 4.700.000 casi segnalati con tutte le loro informazioni, e ovviamente non è previsto chi altri può utilizzarlo. Quindi è gestito bene, l’istituto fa un lavoro enorme, però da questo punto di vista la sorveglianza è unidirezionale. L’articolo 4 della stessa ordinanza parla della condivisione dei dati e continua a dire che l’Istituto dà questi dati al Ministero, li mette a disposizione delle Regioni – ma in realtà ogni Regione vede solo i dati propri, non vede quelli degli altri – e al fine ovviamente di ricerca scientifica internazionale li può dare all’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e all’ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control). E tutti gli altri? Nessuno può vedere questi dati.
Ancora oggi quando l’Associazione Italiana di Epidemiologia ha chiesto di poter aver accesso a un set ridotto di informazioni, per fare delle elaborazioni in  proprio, fare delle verifiche o anche riprodurre i dati dell’Istituto, ci è stato offerto come unica risposta un protocollo di collaborazione con l’Istituto, una collaborazione; ma se l’analisi è indipendente, perché dovrei collaborare con la fonte ufficiale? L’importante sarebbe stato poter replicare. In ambito scientifico la riproducibilità dei risultati è un fatto fondamentale: nessuno se ne esce fuori con una teoria, una scoperta, se non ci dice la “ricetta” con cui io posso rifare la stessa cosa. E questo poi è il motivo alla base delle polemiche su tanti trattamenti: uno dice “a me funziona questo”, ma se agli altri non funziona, non lo possiamo usare.

Insomma in qualche modo l’Associazione Italiana di Epidemiologia da tempo ha chiesto questa possibilità di condivisione: consentire, coordinare, l’accesso ai dati per un’ampia collaborazione.
Qual è stato l’effetto negativo di tutto ciò? Che ogni Regione buttava dentro i dati, tutti erano presi dai propri problemi, nessuno guardava i dati degli altri. Quando il ministero se ne è uscito con la storia delle dei colori, di poter dare delle classificazioni di rischio a seconda delle colorazioni, le regioni sono state costrette a guardarsi l’una con l’altra: perché io sono rossa e quella gialla?
È mancato l’aspetto pedagogico di come si arrivava a questa faccenda, anche perché nessuno vedeva i dati della regione vicina

Quindi qual è stata la criticità da questo punto di vista? Che intanto si è creata un’autoreferenzialità, cioè i dati sono quelli, la verità è solo quella, nessuno può verificarla e riprodurla. Ripeto, il lavoro che è stato fatto è ottimo, eccezionale, ma non è pensabile che ci sia un unico centro di elaborazione delle conoscenze, perché quelle conoscenze verranno viste dai più malevoli come conoscenze generate da un’autorità precisa.
Questo ha comportato il fatto di andare in una stessa direzione (N.d.R.  la citata sopra unidirezionalità), che le regioni non si sono coordinate tra di loro, perché tutte facevano la stessa strada, ma nessuno guardava la Regione a fianco.
Ha comportato che aver disegnato un sistema ad hoc nell’emergenza, utilissimo, non ha portato a migliorare i sistemi già esistenti. Per cui si son persi pezzi del pronto soccorso: nessuno è andato a vedere i dati, addirittura i dati di mortalità non ce li abbiamo.
Il fatto di non aver questo accesso (N.d.R. ai dati) ha permesso di fare dei calcoli di parametri rilevanti – il tempo seriale, il famoso Rt, eccetera – a un’entità esterna, in questo caso la Fondazione Bruno Kessler, e agli altri non sono stati dati gli strumenti per poter fare in proprio le stesse valutazioni.
Ovviamente siamo ritornati alla situazione dell’assolvere il debito informativo: nessuno poteva leggere i dati per decidere cosa fare, prendere decisioni secondo i modelli decisionali di tipo due, come quelli di cui abbiamo appena sentito parlare.
Abbiamo risposto nell’emergenza con quello che avevamo. A una sfida degli anni 2020 abbiamo risposto con un sistema dell’Ottocento, ma neanche nell’Ottocento si faceva così. In qualche modo questo ha portato ad una sostanziale marginalità dell’accademia e dei centri di ricerca che son rimasti totalmente fuori. Tutti desiderosi di aiutare, ma nessuno poteva fare niente, dovevamo solo aspettare i vari bollettini e andare a scartabellare per poter per poter capire che cosa è successo.
Faccio un esempio. Per mesi ci siamo rotti la testa sul perché l’Italia aveva tutti questi decessi rispetto agli altri, apparentemente a parità di casi. E abbiamo sempre detto che (forse) abbiamo una popolazione, che grazie al nostro servizio sanitario nazionale, è ricca di persone fragili, anziane, abbiamo un’aspettativa di vita un po’ più lunga, sarà forse per questo che nel momento dell’emergenza, vengono raccolte più vite che altrove. Finalmente, solamente da un paio di settimane, l’Istituto pubblica i dati di mortalità standardizzati per età, rispetto alla popolazione europea, e vedete che i tassi sono completamente crollati. […] Ma ad averceli i dati! Un esercizio di epidemiologia del primo giorno di corso di Epidemiologia non si è potuto fare, perché non avevamo la distribuzione per età specifica.
In qualche modo quindi c’è stata una sostanziale strutturale fragilità dei centri di produzione di conoscenze, che si sovrappone a una serie di frammentazioni dei dati che non sono accessibili per la comunità di ricerca.

Il problema dell’accessibilità dei dati sul COVID ha mostrato tutta la sua importanza, ma il problema è strutturale in Italia: in Italia non c’è accesso ai dati perché vengono considerati solo come parte di sistemi informativi.
Non c’è disponibilità di interrogazione tempestiva di dati di interesse sanitario: se un cittadino vuole andare a vedere i ricoveri ospedalieri in Italia per fratture del femore o i ricoveri per protesi d’anca, non sa dove guardare. C’è da qualche parte? Se io voglio sapere quanti casi di varicella ci sono in Italia – che non è un segreto di Stato, posto che poi la vaccinazione la facciamo fare a tutti i nostri bambini – ma dove la guardo? Non ci stanno!
Il bello è che fino a qualche anno fa, fino a forse dieci anni fa, c’erano. Dopo non ci sono più stati.
Il problema di non far vedere i dati è che la qualità dei dati diventa pessima, perché nessuno li legge, nessuno s’accorge se c’è un errore, perché vengono elaborati solo nelle stanze di chi prende decisioni.
Quindi serve una maggiore disponibilità e serve la possibilità che questi tipi di dati siano interoperabili e su questo io spero che la politica, in questo momento, possa fare qualche cosa e ovviamente dobbiamo evitare le replicazioni per cui ogni volta riparti da zero; non ripartiamo da zero in Italia, abbiamo tanto e abbiamo tanto bene.
Il piano nazionale, il PNRR (N.d.R Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), sappiamo che ha tutta questa parte dedicata alla digitalizzazione; se la digitalizzazione non è inserita in un’architettura informativa che generi cultura, siamo da capo a dodici: saremo sopraffatti dai dati e non sapremo cosa farci. Quindi è assolutamente essenziale questo, è essenziale per tutti e quindi è importante che questa cosa venga tenuta presente.
Riprendo un po’ la conclusione del dottor Pontrelli: la democrazia e la pacifica convivenza si fondano sulla controllabilità delle asserzioni di chi esercita il potere. Vogliamo generare il consenso perché pensiamo che stiamo lavorando su una base razionale e condivisibile? Fatecela vedere, permetteteci di andare a toccare con mano questo.
Il principio fondamentale dello Stato democratico è il principio di pubblicità, ovvero del potere visibile, perché è basato su un dato trasparente.
Ladesione alle proposte di prevenzione, dipende soprattutto dal consenso su dati oggettivi.
Quindi questo io spero che sia un momento critico in cui possiamo fare tanto, ci aspettiamo tanto e ringrazio i politici che hanno avuto questa sensibilità, grazie.

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Scaletta completa

  • 00:00:00 | Laura Margottini (Bureau of investigative journalism, Il Fatto Quotidiano)
  • 00:00:14 | Saluti istituzionali. Pierpaolo Sileri (Sottosegretario di Stato alla Salute)
  • 00:08:47 | Accesso ai dati. Salute, ricerca, democrazia, privacy. Giuseppe Pontrelli (Ospedale Pediatrico Bambino Gesù)
  • 00:24:14 | Scienza delle Previsioni e Decisioni. Francesco Sylos Labini (Centro Ricerche Enrico Fermi)
  • 00:32:39 | Dati trasparenti, accessibili per un’epidemiologia nazionale che sostenga le politiche sanitarie. Stefania Salmaso (Associazione Italiana Epidemiologia)
  • 00:52:16 | L’iniziativa #datiBeneComune. Luca Carra (Scienza in rete)
  • 01:16:03 | Sorveglianza e ricerca epidemiologica istituzionale. Patrizio Pezzotti (Istituto Superiore di Sanità)
  • 01:50:39 | Il caso degli USA. Alessandro Vespignani (North Heastern University, Boston)
  • 02:13:31 | Dati e pandemia in Francia. Vittoria Colizza (Inserm, Parigi)
  • 02:42:50 | Sorveglianza sanitaria, Ricerca e diritto alla riservatezza dei dati personali. Guido Scorza (Collegio del Garante per la protezione dei dati personali)
  • 03:04:14 | Laura Margottini (Bureau of investigative journalism, Il Fatto Quotidiano)

03:05:43 | Il punto di vista del legislatore. Mariolina Castellone (Commissione Sanità e Istruzione, Senato)

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